(Bioguida n. 43 – Inverno 2013)
Questa è una riflessione sul tema del morire. Una riflessione non ancora completamente chiusa e che rappresenta solo un punto di vista personale. Iniziata da anni, messa su carta e lasciata lì a sedimentare più e più volte. Alcuni eventi di quest’anno m’hanno portato ad una difficile decisione. Ho preso una posizione definita riguardo l’eutanasia. Una posizione che rispetta la mia dignità, i miei valori e anche chi la pensa in modo diverso. Diverso non significa migliore o peggiore.
Pongo
La stanza è in penombra, un letto, una bombola d’ossigeno, un’asta portaflebo.
Un uomo le è seduto accanto, l’anziana signora respira con leggerezza sotto le coperte.
Il piccolo cane, arrivato con l’uomo ora seduto, non conosce quella casa.
La sua storia, iniziata 12 anni fa ,è una viaggio avventuroso e complicato da varie e imprevedibili vicissitudini umane.
Ha conosciuto diverse persone che si sono prese cura di lui. Quest’uomo lo ha incontrato solo negli ultimi mesi, la donna poi non l’ha mai vista prima.
Piccolo yorkshire mai stanco di passeggiate ed esplorazioni, quasi allergico allo stare tra quattro mura per più di un’ora, appena entra in quella stanza si dirige verso la minuta vecchietta.
Si posiziona sotto al letto, esattamente in corrispondenza della testa della signora e da lì non si muove più.
Guai per chi cerca di prenderlo e portarlo fuori per mangiare, lui ringhia e mostra i denti. Per il tempo necessario alla donna per compiere il trapasso, non c’è altro modo che mettere ciotole e acqua sotto al letto oppure prendere “con la forza” il piccolo e determinato Pongo e portarlo fuori, giusto per una brevissima passeggiata.
I giorni passano delineandosi in settimane, Pongo rimane nella sua posizione, veglia lo scorrere lento degli eventi. Ci sono momenti critici. Sintomi anche intensi compaiono in questa ultima parte di vita dell’anziana signora.
Per quanto strano possa sembrare, raggiungere lo stato ideale per lasciare il proprio corpo fisico non è una cosa semplice. Ci sono molti fattori, interni ed esterni, che agiscono come resistenze, quando questi si sommano compaiono i sintomi fisici, oppure talvolta è come se fosse necessario aspettare la visita di ancora una persona prima di poter chiudere il cerchio. Il tempo corre lentamente, in una dimensione non ordinaria.
Quando compaiono i sintomi, questi generano evidente disagio e dolore, intensissima sofferenza emotiva, molti dubbiosi pensieri e domande per i presenti. Coloro che assistono, in quei momenti, passano rapidamente dal “vorrei che finisse tutto subito” al “vorrei che non ci lasciasse mai”.
Ciò nondimeno Pongo accompagna, veglia, protegge, sostiene questa donna e chi l’assiste.
Uscirà da solo, da quel letto, 36 ore dopo il trapasso. La veglia di Pongo dura un mese circa. Lui poi torna alla sua vita normale, con una gran voglia di uscire, seguire odori, incontrare persone e altri animali.. torna il Pongo che tutti conoscono, il Pongo che quando vuole qualcosa abbaia, e spesso qualcosa vuole.
Fare
La nostra società è improntata sul fare, sulla competizione, su vittoria e fallimento. Il “lasciare che sia” è sinonimo di arrendevolezza.
Il parto è assistito, programmato e indotto. Dalla nascita in poi è continuo l’intervento su sviluppo e crescita affinché siano raggiunti obbiettivi in tempi codificati e avvalorati da statistiche. Incremento ponderale, crescita in altezza, sviluppo cognitivo, il diploma, la laurea, il lavoro, costruire basi, allevare i figli, e via da capo..proprio così, come se esistesse un eterno ciclo di vita, in cui fare cose significa percorrerlo, come criceti impazziti.
Tutto viene orientato al raggiungimento della capacità di fare qualcosa entro un tempo determinato, con la massima efficienza possibile. La vita scorre e giunge al suo termine.
La negazione suprema del fare e del poter fare è la Morte. Motivo per cui non è accettabile, motivo per cui il pre-morte viene spesso vissuto con vergogna.
Malattia e morte
Con la malattia è possibile ancora un dialogo, un intervenire, un lottare e quindi un fare. Con la morte, naturale, l’agire viene negato.
Dal momento in cui viene pronunciata la frase “non c’è più nulla da fare” l’uscita consequenziale in questo sistema di valori è “non ha più senso vivere”.
Finché c’era la speranza di vincere la malattia, la sofferenza fisica era accettabile, da questo momento non solo non è tollerabile ma si aggiunge il dolore della fine delle speranze.
Se si tratta di un animale, resta ancora una cosa da fare: la puntura.
Anestetizzare il proprio sentire è la difesa per non esserne travolti. Ci si ricaccia in un angolino di sé stessi e li si attende quanto è necessario perché torni la luce.